C'e' da salvare la citta' nella natura

"C'e' da salvare la citta' nella natura. Il risanamento dall'interno.
Basta che i fautori del progresso si pongano il problema.
Questa regione, [...] e i villaggi intorno, dovrebbero essere rispettati proprio nel loro rapporto con la natura. Le cose essenziali, nuove, da costruire, non dovrebbero essere messe addosso al vecchio.
Basterebbe un minimo di programmazione. ........e' ancora in tempo per fare certe cose. [...]
Quel che va difeso e' tutto il patrimonio nella sua interezza.
Tutto, tutto ha un valore: vale un muretto, vale una loggia, vale un tabernacolo, vale un casale agricolo.
Ci sono casali stupendi che dovrebbero essere difesi come una chiesa o come un castello.
Ma la gente non vuol saperne: hanno perduto il senso della bellezza e dei valori. Tutto e' in balìa della speculazione.
Cio' di cui abbiamo bisogno e' di una svolta culturale, un lento sviluppo di coscienza......".
Pier Paolo Pasolini, 1974

Testimonianze storiche e letterarie

Da Plinio (23 -79 d.C.) ad oggi: cosa s'e' detto e cosa si dice di Papigno. 

La storia narrata e quella vissuta.


"e il Sol d'agosto imporpora la gota lanuginosa delle pesche d'oro"Alinda Bonacci Brunamonti

da: Con Garibaldi ALLE PORTE DI ROMA (1867). RICORDI E NOTE DI Anton Giulio Barrili, Milano, Fratelli Treves, Editori(1895)


V.
Trecento uomini sulle braccia. La cascata delle Marmore. Poesia d'un viaggiatore e
prosa d'un cicerone.

(…)La mattina vegnente (perchè io non istarò a raccontarvi minutamente tutti i nonnulla di una sera passata a zonzo per le strade di Terni) prendemmo una vettura da nolo, capace di sei persone, senza contare una settima che poteva stare a cassetta col vetturino, e ce ne andammo a visitare la cascata delle
Marmore, una delle sette meraviglie d'Europa.
Era il 17 di ottobre; giornata bellissima; cielo limpido, di zaffiro; aria tiepida, come di primavera. La via, piana per un bel tratto fuori delle mura, dove passa il fiume Nera, s'innalza a gradi, s'inerpica sul fianco di una montagna, di cui non rammento il nome, ma che somiglia moltissimo alla pinifera costiera per cui, nella mia Liguria, i cittadini di Cogoleto non possono vedere quei d'Arenzano. Sotto di noi, ad una certa distanza,
rumoreggia la Nera, già maritata al Velino, che le si precipita in grembo dall'alto delle Marmore; tra la fiumana e noi, seduto sulla cima d'un poggio sta un gaio paesello che porta il nome di Papigno, famoso per la bellezza e il sapore delle sue pesche. A mano a mano che si sale, la vallata di Terni apparisce ciò che è veramente, e che, standole in grembo, non si può vedere nè godere; voglio dire un maraviglioso sfondo di prospettiva, con uno di quegli orizzonti vaporosi e caldi che sono una bellezza particolare della campagna romana.
Adesso, lettori umanissimi, eccoci arrivati. La via si fa piana, e ci si para davanti agli occhi una casina bianca, che porta sul suo lato più appariscente una scritta. Leggiamo e intendiamo che ivi abita il personaggio più
importante dei luoghi; nientemeno che il cicerone della cascata. Smontiamo, ci mettiamo nelle sue mani, e fatti pochi passi nei vigneti incominciamo a sentire un rumore d'inferno. Il cicerone sorride al nostro stupore, e con un bel gesto classico c'invita a proseguire la via.
- Venite, - diss'egli, - venite, signorini, e vederete se cos'è. -
Di ciglione in ciglione, per sentieruoli campestri, si scende fino ad una balza, che è un vero posto avanzato sull'abisso. C'è un rustico edifizio quadrato, abbastanza somigliante a quelle tali cappelle svizzere che portano il nome di Guglielmo Tell e si vedono spesso riprodotte sui paraventi dei caminetti o sul fondo dei vassoi; quattro pilastri di mattoni, un morello intorno coi suoi sedili di pietra, un tetto a quattro acque, e nient'altro.
Corriamo là dentro, mettiamo fuori la faccia; che strana veduta, da mettere i brividi!
"Frastuono d'acque! dalla balza scoscesa il Velino attraversa il precipizio scavato dall'onde. Caduta d'acque! rapida come la luce, la massa zampillante spumeggia, crollando l'abisso. Inferno d'acque! dove esse urlano, fischiano,ribolliscono in eterno tormento, mentre il sudore della loro grande agonia, spremuto da questo lor Flegetonte, si rigira intorno alle negre roccie lucenti che fiancheggiano il gorgo, immobili nella spietata orridezza;
"E sale in ispuma al cielo, donde ancora ricade in continuo nembo, che scorre dalla sua nuvola inesausta di amica pioggia; eterno aprile al terreno, che si fa tutto uno smeraldo. Come profondo il vortice! e come l'elemento gigante balza di roccia in roccia con salti forsennati, scuotendo i massi, che già rotti e travolti dai suoi passi feroci danno per le lor fenditure un pauroso varco
"Alla vasta colonna che sopra vi scorre, più somigliante alle scaturigini di un Oceano fanciullo, prorompente dal grembo delle montagne in doglia per un nuovo mondo, anzi che ad un padre di fiumi che gorgogliando scorra co' suoi serpeggiamenti attraverso la valle. Volgetevi a guardare; ecco, essa viene come una eternità che ogni cosa abbatte nel suo corso, affascinando di paura lo sguardo; cateratta senza pari,
"Orribilmente bella! Ma sull'orlo dell'abisso, dall'uno all'altro lato, sotto il limpido mattino, siede un'Iride in mezzo al vortice infernale, pari alla speranza su d'un letto di morte, e, non scemate mai le ferme tinte, mentre tutto all'intorno è lacerato dalle acque sconvolte, serba serena i suoi brillanti colori con tutte le loro non ricise strisce; rassomigliando, in mezzo alla tormentosa scena, Amore vigilante la Follia con immutabile aspetto."
Questa è povera prosa, che rende male quattro novene meravigliosamente descrittive del Childe Harold. Ma il precipizio in cui si slancia il Velino non è tutto scavato dalle acque, come potrebbe far credere a prima giunta il waveworn del testo inglese. La cascata è artificiale; il suo taglio è ardimento romano; e la storia tramanda che fu operato dal censore M. Curio Dentato, nell'anno 481 ab Urbe condita, per asciugar le paludi dell'agro di Rieti; il quale era appunto (com'è tuttavia, vi prego di crederlo) più alto della vallata di Terni, e il Velino, stagnando lassù, gli era proprio d'impaccio. L'opera del bravo censore sanò la campagna reatina per modo che questa divenne in breve saluberrima, e meritò d'esser chiamata la Tempe d'Italia.
Tempe, chi nol sapesse, era una bellissima valle della Tessaglia, tra i monti Olimpo ed Ossa, presso la foce del fiume Penèo che le scorreva nel mezzo, come appunto il Velino nella valle di Rieti. Antiche tradizioni recavano che la gran pianura della Tessaglia fosse un tempo tutta allagata, e che finalmente le acque si scaricassero di colà per la via di Tempe, aperta con un colpo di tridente da Nettuno. Altri dicono da Ercole, con un colpo di clava: ad ogni modo il mito raffigura un gran cataclisma geologico avvenuto in Tessaglia; laddove a Rieti fu opera di quei grandi Romani, che, quando volevano far miracoli, non avevano bisogno di far capo agli Dei.
Tempe italiana! il nome le è derivato da un cenno di Cicerone; il quale, scrivendo all'amico Pomponio Attico d'un suo viaggio colà, dice chiaramente: "Reatini me ad sua Tempe duxerunt." Ma ritorniamo alla nostra cascata, cagione di tanta felicità per l'agro reatino e di tante, digressioni per me. Impedito più volte nel corso dei secoli questo sbocco del vorticoso Velino, fu più volte restaurato, e da ultimo sotto il papa Clemente VIII, nel 1598. Ora la mano dell'uomo non si ravvisa punto in quello scoscendimento, coperto com'è d'incrostazioni calcari, che arieggiano i più sottili ricami, molle di muschio, stretto intorno da piante ed erbe rigogliose che sembrano deliziarsi nei continui spruzzi di quella fiumana scintillante d'argento, che si versa in maestoso volume dall'altezza di trecentosettantacinque metri. Caviamoci il cappello!
Un po' più lontano da quella gran massa lucente, si scorge seguire la medesima strada un solitario fil d'acqua. E dico filo, a cagione della sua smisurata vicina, che lo fa parer tale. Chi lo ha persuaso a far cammino da sè? Io lo scambiai per un amante malinconico, a cui facesse dolore la vacillante maestà della donna amata; Cosìcchè egli protestasse in certo qual modo, non volendo starle vicino, e non osando ad un tempo andarsene troppo lontano. Povero innamorato, consòlati! Il destino, più forte di te, di lei, delle vostre gelosie, vi ricongiungerà in fondo all'abisso, dove esulterete confusi ambedue, risospinti in aria dal cozzo, e mutati, non so se in larga spruzzaglia o colonna di fumo, che l'una cosa e l'altra mi parve ad un tempo; e l'iride, segno di pace, distenderà pietosa sul vostro amplesso forsennato l'arco sublime dei suoi sette colori.
Questo arcobaleno perpetuo, ch'è una delle grandi bellezze della cascata, non è stato ricordato soltanto da lord Byron; in tempi per noi antichissimi fu ammirato da Plinio, il naturalista, che scrive nella grande sua opera, al capitolo LXII del secondo libro, ove tocca delle particolarità del cielo nei varii luoghi della terra: "et in lacu Velino nullo non die apparere arcus." Che bella cosa, alla distanza di quasi duemill'anni, aver tutti contemplato il medesimo spettacolo! Noi passiamo, noi che siamo fatti di carne, d'ossa e di colpe; ma l'arcobaleno della cascata di Terni, lieve, impalpabile, frutto degli amori del sole con le gocce d'acqua, rimane, e rimarrà finchè durino l'acqua ed il sole.
Se io vi stèssi a sciorinare tutte le fantasie che mi passarono per la mente laggiù, non la finirei tanto presto. Andate voi, con le vostre gambe, a vedere coi vostri occhi, a fantasticare colla vostra mente, che io qui faccio punto. Ma prima di tutto, quando sarete alle Marmore, pregate il signor Giuseppe Conti "guida della cascata" a liberarvi da quella turba di ragazzi, che col loro serrarvisi ai panni, con le loro grida importune, vi guasterebbero il piacere di quella scena stupenda.
Con essi non giova aver soldi in tasca; più ne date, più ne domandano. Noi li avemmo tutti alle costole; e tra essi più molesta una ragazzina tredicenne, chiamata Barbara. È il nome di molte donne, laggiù; non ho avuto il tempo di sincerarmi se siano tali anche di fatto. Quella Barbara era belloccia, ed uno della brigata la battezzò per la ninfa delle Marmore; ma si fece brutta seccandoci col suo voler sempre denari. Ninfa venale! L'amico l'aveva chiamata "bella, ma sudicia"; e lei subito era corsa a lavarsi il viso e le mani in un rigagnolo, per ritornare ora con un pezzo di stalattite, ora con un mazzetto di fiorellini selvatici; cose tutte che dimandavano soldi, e poi sempre soldi.
E il peggio era questo, che ad ogni soldo dato a lei per levarcela dai fianchi, saltavano su tutti gli altri marmocchi, gridando:
- E a me, signorino, non me date più gnente? Barbara ha avuto sette soldi; io ne tengo appena cinque, ne tengo.
- Che il cielo vi benedica, graziosi ragazzi! levatevi una volta da romper le tasche; - rispondevamo noi. Il cicerone, più latino di lingua, soggiungeva:
- E annate 'na vorta, che possiate morì' d'accidente! -
Ma l'aiuto del cicerone non andava più in là d'un semplice augurio. (…)

I viaggiatori del Gran Tour
Questa deliziosa vallata che è bagnata dalle acque del Nera. [...] La strada che porta alla cascata costeggia questa deliziosa vallata, è da questo lato, la sua estremità superiore, che è situata la veduta di cui si tratta. Sulla destra potete vedere a metà Papigno [...] e aulla sinistra, si vede al di là del fiume Nera un sentiero che conduce al nostro paesaggio, e che senza dubbio offre il colpo d’occhio più incantevole che si possa vedere.
John Smith, 1780



Da “L’Umbria manuali per il territorio. Terni”, vol II, 4, Ed industria, Roma, 1980
Conca di Papigno
Il Quattrocento e’ stato uno dei secoli che, a somiglianza di quanto avvenuto anche per il resto dell’Umbria, ha segnato maggiormente il paesaggio rurale del ternano e della conca di Papigno. Al Quattrocento si fa appunto risalire la generalita’ dei dissodamenti a spese del rivestimento a bosco..
Non c’e’ poi, a partire da questo secolo, atto di donazione o contratto di mezzadria, o statuto che non  ricordi le attenzioni rivolterai papignesi alle “forme”. I catasti piani dell’epoca confermano anche la lenta diffusione della cultura promiscua, malgrado i seminativi nudi occupino ancora la maggior parte del suolo coltivato. D’altronde la ripidita’ dei versanti della conca rende la zona piu’ adatta alle colture legnose che non a quelle erbacee. Nei sec. XV e XVI quindi l’agricoltura e’ l’attivita’ primaria dei papignesi impegnati a potenziare la rete irrigua, come testimonia l’insistenza delle riformanze e degli statuti nel ribadire l’importanza dell’arboricoltura che continua a progredire anche attraverso il generalizzarsi degli impianti a coltivazione promiscua. Trovano largo spazio le coltivazioni della vite maritata ai cosiddetti “alberi da pergola” (l’olmo, l’acero campestre, l’orniello), quella del gelso, del mandorlo, dell’ulivo e soprattutto quella del pesco che rimarra’ a lungo uno dei prodotti piu’ tipici di questo territorio.
Il paesaggio inoltre si arricchisce di nuovi elementi come i filari di pioppi e di salici messi a rinforzo degli argini e a protezione delle inondazioni del Nera.

A complemento di questa economia essenzialmente agricola e favorita dalla grande ricchezza di aacque, sono da ricordare alcuni opifici tra i quali due cartiere mosse dai canali romani Cervino e Sersimone, una conceria, e naturalmente numerosi mulini. I secoli XVII e XVIII vedono l’affermarsi dell’insediamento sparso  poiche’ i contratti, soprattutto quelli di mezzadria, esigono ormai che il contadino viva sui fondi a presidio delle colture.
Le riformanze segnalano nuovi opifici lungo i cancli del Nera, alcuni molini,, frantoi e una fabbrica di pannilani: iniziative di notevole peso per l’economia di una plaga cosi’ circoscritta che continua a dotarsi di ogni attrezzatura utile alla lavorazione in sito delle sue produzioni rurali.
Le colture del primo Ottocento sono gia’ fondamentalmente di tipo promiscuo: viti e ortaggi occupano l’area pianeggiante insieme a colture specializzate, soprattutto di pesco che acquistano sempre maggior rilievo. I proverbiali “perzichi di papigno” vengono descritti come “frutti eduli che hanno il piu’ squisito sapore, di colore giallo dorato magnifico (…) vengono esportati nei piu’ lontani paesi’. Anche i versanti della valle appiaono intensamente coltivati, grazie a nuovi interventi, se pur limitati, intesi a modificare la morfologia del terreno con scarpate inerite che interrompono i pendii ad intervalli piu’ o meno regolari, sistemazione sfruttata soprattutto per la coltura degli ulivi.

Tutti sanno che l’itinerario italiano del “grand tour”, cioe’ del lungo viaggio che letterati o artisti stranieri, ma anche del settentrione d’Italia, compivano nel sud, aveva alcune tappe obbligate e privilegiate: Roma, i castelli romani, altri luoghi del Lazio, come Subiaco, Civita Castellan, Nepi, o della Toscana, come Volterra, e inoltre la costiera amalfitana, Napoli, Capri. Non altrettanto noto e’ che una delle tappe piu’ frequentemente rispettate fosse Terni e il paesaggio circostante. Naturalmente il pensiero corre, quasi per trovare un’immediata giustificazione, alla ‘,eraviglia’ piu’ vicina, la Cascata delle Marmore; ma anche qui, e’ bene non accettare senza riflettere il luogo comune. Infatti, se e’ vero che la fama internazionale, specie dopo  Byron, della Cascata provoco’ fra Sette e Ottocento una ricca fioritura iconografica, e’ anche vero che altri luoghi del paesaggio ternano, molto meno spettacolari, incontrarono una fortuna figurativamente piu’ alta del gran salto d’acqua.
In altre parole, di fronte a tanta grazie di natura e umano ingegno, i grandi pittori dovettero provare un certo imbarazzo. Furono soprattutto vedutisti come Hackert e il Vasi a prenderla di petto, e il risultao non ando’ in genere oltre una puntuale diligenza topografica. E’ significativo che quando un vero pittore si azzarda a piazzare il cavalletto o il foglio d’album di fronte alla Cascata , come fece Joseph Anton Koch verso il1820, trova modo, acquattandosi, di moltiplicare a tal punto le quinte di scoglio e di veduta da perder di vista l’intera cascata (disegno conservato nel Kupferstichkabinett der Bibliotek der bildenden kunste, Vienna).
Senza dubbio lo stesso Koch si trova piu’ a suo agio davanti a brani piu’ placidi del paesaggio ternano, come quello rappresentato nel poco noto quadro del Thorvaldsens Museum di Copenahagen, intitolato ‘Paesaggio presso Terni con piccolo ponte sul fiume’ e dipinto probabilmente durante lo stesso viaggio del 1820. dunque non era soltanto la fragorosa caduta del Velino sul Nera ad attirare questi pittori; anzi, il classicismo tra nazareno e poussinista di Koch trovo’ piu’ congeniale quel luogo sereno e di aspetto curiosamente pre-industriale, da collocare forse tra Porta Spoletina e la ferriera; o, sollecitato di nuovo dal tema delle cascate, preferira’ tradurre in pittura, due anni dopo, le Schmadrifalle dell’Oberland bernese, ben contornate di abetaie e coronate di cime nevose, ma tanto meno precipiti delle Marmore.
Un caso in un certo senso analogo a quello di Koch concerne il lombardo, ma insediato a Roma, Giovanni Battista Bassi, uno dei migliori paesisti italiani della pima meta’ dell’Ottocento. Anche lui –siamo sempre nel 1820 – perlustra il terreno, richiamato dalla spumeggiante attrazione, che sceglie naturalmente come soggetto di un quadro; ma e’ subito da avvertire che egli riusci’ ben altrimenti intensa un’altra Terni, periferica e minore, oggi irrimediabilmente scomparsa, che egli fermo’ in una tela intitolata ‘Strada tra muri di giadini (Terni), ammirata da Thorvaldsen e oggi esposta anch’essa a Copenaghen (Thorvaldsens Museum). L’immagine  dei dintorni di Terni che allora il Bassi e subito dopo il grande sculturo poterono portarsi via era una strada in salita, fiancheggiata da un muro e inquadrata da un arco, passeggiata prediletta di due frati.
Altrettanto estraneo alla Terni attuale e’ il paesaggio dipinto nel 1830 dal grande italianista tedesco Karl Blechen che lo intitolo’ ‘Donne al bagno nel bosco di Terni’ (Berlino, collezione Runge): un titolo stupefacente se si riflette che il quadro raffigura certamente uno di quei brani di immediato suburbio spariti, come si sa, per condensazione. ‘Il bosco di Terni’: ovvero un luogo vicinissimo alla citta’ bagnato dal Nera e cosi’ben protetto da una maestosa vegetazione  che le donne potevano rinfrescarsi in tutta liberta’. Anche se oggi non e’ possibile ubicarlo con precisione, era sicuramente compreso nella zona ad est della citta’, solcata dal fiume, che aveva il suo limite ai piedi della collina di Papigno.
Non e’ dubbio che proprio questo, che puo’ essere considerato una specie di “porta della Valnerina”, fosse uno dei luoghi celebri d’Italia. Non e’ propriamente l’ambiente della Cascata: di essa il costone del monte di Rocca S. Angelo lascia vedere solo l’aureola, cioe’ il piu’ alto pulviscolo d’acqua abbagliato dai raggi solari; e’ l’insieme costituito da quel monte, dal colle di Papigno e dalle boscose rive del Nera, dove la bassa vegetazione di querce ed aceri arriva a lambire la corrente. Una tempera del pittore svizzero Franz Kaisermann, datata 1820, riproduce efficacemente i caratteri del luogo nei colori rugginosi dell’autunno avanzato. Uno dei motivi di interesse di questa veduta e’ la rappresentazione puntuale della villa Graziani, che poco dopo ospitera’ anche Corot. Si comprende perfettamente che la villa esercitasse un intenso richiamo sugli artisti. Infatti, ubicata su un tratto pianeggiante della riva occidentale del Nera, e fornita di un’alta sopraelevazione, essa poteva fungere da vero e proprio osservatorio dei magici effetti di acqua-luce visibili a oriente, al di sopra dello schermo roccioso
E’ questo uno dei luoghi italiani che piu’ incantarono Corot, al punto da indurlo a ritornarvi nel 1843, a diciassette anni dai primi suoi dipinti di Papigno e della Cascata. Nel ’26 aveva dipinto tra l’altro Papigno dalla valle (Zurigo, collezione Nathan) e ‘Il Velino all’uscita dal lago di papigno (Parigi, collezione privata) o, per meglio dire, l’uscita dall’alveo del Velino, osservata a distanza molto ravvicinata, cosi’ da far risaltare l’effetto chiaroscurale nel contrasto tra le correnti. Ma e’ nella seconda vista quella del ’43, che dara’ a questi luoghi il capolavoro la ‘Valle di Papigno al mattino’ della collezione Bellon. E’ un meraviglioso controluce in cui gli ulivi sfiorati dal sole in primo piano rendono percepibile e, per cosi’ dire, respirabile lo stacco con la collina retrostante in ombra, con le case di papigno in terra rossa e, piu’ ancora, con il monte di rocca. Angelo, ridotto a una parete violetta. Si puo’ tranquillamente dire cio’ che noi chiamiamo il paesaggio umbro – coe’ il suo volto storico – non era mai stato interpretato, ne’ lo sara’ poi, con tanta acuta intelligenza. Spesso, davanti alla pitura di di paesaggio del Settecento e dell’Ottocento, si ha la sensazione di una specie di requiem, preveggente e inconscio, per una qualita’ della natura che sarebbe presto scomparsa. Nella ‘’Valle di Papigno al mattino’ Corot non tradisce emozioni o tristi presagi. Nel suo occhio, civilta’ e natura si componevano in un’armonia ‘oggettiva’: e cio’ proprio nel percepire un lembo di quello straordinario spazio storico della vecchia Italia che giusto mezzo secolo dopo, uomini di diversa sensibilita’ giudicheranno un luogo possibile per l’installazione di un grande impianto produttivo della nuova Italia.

Dall’inizio del secolo in soli trent’anni un paesaggio siffatto, modellatosi lentamente attraverso il lavoro secolare dell’uomo viene spazzato via  dalla irruzione dell’industria  nella conca di papigno. La grande ricchezza di acqua che sino ad allora era servita ad alimentare piccoli opifici, a completamento di una economia mista, diventa un fattore di sconvolgente trasformazione. Le centrali idroelettriche, lo stabilimento per la produzione di carburo, prendono il posto delle piantagioni di peschi. Il castello di Papigno, con il trascorrere degli anni prendera’ il monocromo, livido colore delle periferie industriali del nord Europa.
Cosi’ l’area delle colture si riduce sempre di piu’ in relazione alle conseguenze dell’inquinamento atmosferico, in particolare pulviscolo di carbonato, ossido e carburo. Le colture seccano e anneriscono, viti, ulivi e gli alberi da frutto vivono stentatamente. In singolare contrasto contrasto con questo degrado, la popolazione di Papigno passa dai 3.127 abitanti del 1901, a 5.175 del 1930.
Oggi, esaurita ormai la spinta operata da grandi interessi che hanno agito come agenti di trasformazione in questo territorio, la Conca di Papigno ci appare disseminata di vestigia di un passato recentissimo, eppure irrimediabilmente lontano e certo irripetibile.

Tranvia Terni-Ferentillo. La piccola stazione che sorge sulla destra della Statale 209 nei pressi del ponte che porta a Papigno, e’ uno dei pochi ’resti’ della tranvia Terni-Ferentillo.

La tranvai (a trazione elettrica e a scartamento normale) fu realizzata dalla Societa’ per le Tramvie Elettriche di Terni, costituita a Roma il 14 novevembre 1899 con un capitale di un milione di lire. Il capitale, 4.000 azioni da L. 250 ciascuna, era ripartito fra la Societa’ per lo Sviluppo delle Imprese Elettriche in Italia (che ne deteneva la maggioranza) e la Societa’ Italiana per il Carburo di Calcio. Successivamente quest’ultima, interessata a stabilire un collegamento fra il proprio stabilimento di Collestatte e Terni, rilevo’ tutta la quota azionaria della Societa’ per lo Sviluppo.
In data 4 aprile 1900 la Provincia dell’Umbria, accordava alla Societa’ delle Tramvie Elettriche la concessione della linea, stabilendo che fosse realizzato entro un anno il tratto Terni-Collestatte e nel giro di sei anni (poi prorogati a undici) la prosecuzione fino a Ferentillo. La Carburo di Calcio si impegno’ a fornire la forza motrice necessaria per il funzionamento della linea.
Il primo tronco, lungo m 8.735, entro’ in esercizio il 14 dicembre  1901, all’inizio per il solo trasporto viaggiatori, in seguito anche per le merci. Il 5 settembre 1909 fu inaugurato il secondo tratto fino a Ferentillo (m. 9.750), portando la lunghezza complessiva della linea a m. 18.485. non fu invece mai realizzato il progetto di allacciare la linea con la ferrovia Spoleto-Norcia presso S. Anatolia di Narco, che avrebbe migliorato i collegamenti con l’alta Valnerina.
Quasi tutti gli stabilimenti dislocati lungo il percorso erano raccordati con la tranvia e quindi anche con la stazione ferroviaria di Terni per il traffico merci, che fu poi deviato dal centro della citta’ nel 1924, mediante la costruzione di un raccordo che passava attraverso l’area delle Acciaierie. Nel 1933 fu eliminato il tratto urbano della tranvia, che dalla stazione ferroviaria, passando attraverso Piazza tacito , giungeva quasi all’inizio di viale Brin (alcuni anni prima, intanto, la gestione della linea era stata assunta dalla Societa’ Terni).
La concorrenza esercitata da altri mezzi di trasporto e la diminuita importanza economica di alcuni degli stabilimenti localizzati lungo la linea determinarono la crisi della tranvia che fu smobilitata dopo il 1960.
In una pubblicazione del 1932 veniva sottolineato che il percorso della tranvia  si snodava ‘attraverso una localita’ quanto mai pittoresca e in somma grado interessante perche’ consente di ammirare, accanto alle meravigliose bellezze profuse a dovizia dalla natura, le prodigiose creazioni dovute al lavoro dell’uomo’.

EX STABILIMENTO ELETTROCHIMICO DI PAPIGNO

Lo stabilimento che e’ stato smobilitato nei primi anni Settanta si estende su un’area di mq. 105.450 (di cui 34.000 coperti), dislocata a cavallo del Nera (dall’alto del paese di Papigno si puo’ ricavare una visione d’insieme del complesso).
Lo stabilimento la cui costruzione fu iniziata nel  novembre del 1908 e completata tra il 1930 e il 1931, venne realizzato dalla Terni nel quadro di un processo di ristrutturazione del settore chimico ereditato dalla Societa’ Italiana per il Carburo di Calcio, che proprio a Papigno aveva costruito, dopo quella di Collestatte, una seconda fabbrica nel 1900. “Questi impianti – veniva sottolineato in una pubblicazione del 1934 – erano stati fra i primi al mondo (…) e di questa loro priorita’ avevano anche gli inconvenienti. La loro produzione era troppo frazionata, i mezzi antiquati ed i singoli elementi produttori troppo piccoli per poter usufruire dei piu’ recenti progressi di quel ramo dell’industria. Inoltre questi impianti risultarono insufficienti alla funzione di volano che si veniva loro attribuendo in seguito al grande aumento della produzione idroelettrica”.
Fu cosi’ che alla chiusura degli impianti ereditati dalla Carburo di Collestatte e di NArni si accompagno’ la realizzazione di un nuovo complesso a Papigno, motivata dalla disponibilita’ sul posto delle due principali materie prime necessarie per la lavorazione: il calcare e l’elettricita’. Del precedente impianto della Carburo vennero conservate solo alcune parti e cioe’ ‘due grandi forni a carburo, uno da Kw 5000 e uno da Kw 7000,una batteria di 8 forni da Kw 1000 da destinarsi a riserva e alla eventuale produzione di ferroleghe e alcune fornaci di calce’. L’investimento complessivo fu pari a circa 56 milioni di lire.

Il ciclo di lavorazione si snodava nel seguente modo: dalla cava il calcare veniva convogliato a tre grandi fornaci verticali (a cui fu aggiunta una quarta nel 1935) capaci di produrre t 360 al giorno di calce,che dosata con il coke, passava ai fornii (3 forni elettrici trifase da Kw 13.000 ciascuno, muniti di 3 trasformatori da Kw 34.000, capaci di una produzione giornaliera di circa t 360) dove veniva trasformata in carburo. Questo veniva versato nelle lingottiere e dopo aver subito un processo di raffreddamento veniva inviato all’imballaggio o utilizzato per la produzione di calciocianamide. Questa ultima si ricavava nel seguente modo: il carburo passava prima lungo 4 linee di frantumazione e macinazione e quindi era caricato in 210 fornetti di azotazione per divenire calciocianammide. Il prodotto era quindi frantumato, polverizzato, diluito, oleato e poi trasferito, mediante dei trasportatori meccanici, ai magazzini collocati oltre il fiume dove subiva un ulteriore processo di diluizione a seconda delle richieste del mercato. Il magazzino aveva una capienza di q. 850.000.
Le produzioni dello stabilimento aumentarono, pur con alcune cadute, nel corso degli anni Trenta: dalle t. 33.300 di carburo del 1931 si passo’ alle 67.658 del 1939 fino a t 69.294 nel 1941; quella della calciocianammide arrivo’ a toccare t 120.068 (1939). Analogo andamento ebbe l’occupazione che dopo il 1933-1934 si stabilizzo’ sopra le mille unita’ per aumentare ulteriormente nei primi anni del conflitto (nel 1941 la fabbrica registro’ un’occupazione da alcuni stimata pari a 2.900 unita’).

Nel secondo dopoguerra lo stabilimento, una volta recuperata la potenzialita’ produttiva postbelllica, penalizzato fortemente da bombardamenti e asportazioni (secondo una stimadal 1946-1947 l’impianto aveva una capacita’  installata pari ed oltre il 50& di quella nazionale) subi’ a piu’ riprese un costante processo di riorganizzazione e di ammodernamento. Ma la riduzione dei costi non riusci’ a controbilanciare   il calo della domanda di carburo grezzo e di calciocianamide  - resi obsoleti dalla tecnologia petrolchimica – e dei loro prezzi di vendita. Gia’ nel 1939la Terni aveva pensato ad uno sbocco di mercato alternativo per i prodotti dei propri impianti elettrochimici costituendo, in societa’ con la Pirelli, la SAIGS per la produzione di gomma sintetica per la quale si sarebbe utilizzato il carburo di Papigno; la partecipazione nella SAIGS fu poi ceduta dopo la guerra alla Montecatini. La sempre maggiore qualificazione della Terni nel campo elettrico rendeva sempre meno conveniente alla Societa’ l’utilizzazione di energia pregiata nei propri impianti elettrochimici che quindi vedevano esaurire quella vocazione di volano con cui erano sorti. Cosi’, dopo una progressiva riduzione dell’occupazione lo stabilimento di Papigno, che intanto nel 1967 era passato all’ENI, fu chiuso nel 1973. nello stabilimento, comunque, si effettuano tuttora, con pochissimi addetti alcune produzioni e cioe’ quelle di idrogeno ed ossigeno che vengono inviati mediante un sistema di condotte alle Acciaierie.

Oltrepassato lo stabilimento elettrochimico, la strada conduce al centro abitato di Papigno.

PAPIGNO

Castello di promontorio a schema fusiforme, fu gia’ proprieta’ della famiglia Arroni e fu comprato dal Comune di Terni nell’anno 1225 insieme alla rocca di monte S.Angelo gia’ detta ‘Sgurgura’. Il castello, insieme con la rocca di S. Angelo avevano notevole importanza strategica poiche’ controllavano la strada per Rieti.
L’impianto e’ caratterizzato da due strade a mezza costa che girano come un anello attorno alla chiesa dell’Annunziata che si erge nel punto piu’ alto del promontorio. Il vertice del castello era rafforzato dalla rocca, di cui sono in piedi notevoli resti.
Il tessuto edilizio e’ ben conservato; non altrettanto le singole case le quali hano subito, al principio del nostro secolo, notevoli manomissioni in conseguenza dei primi insediamenti industriali. L’abitatocomincio’ allora ad espandersi verso monte S. Angelo.
La zona a valle, un tempo molto fertile, era denominata ‘valle Castelli’, dall’antica famiglia terzana i cui possedimenti si estendevano da fuori Porta S. Giovanni fino a Papigno. Anche l ponte in muratura e un altro in legno a valle del castello, erano proprieta’ della stessa famiglia. Nella via principale, intitolata ad Umberto I, e’ il prospetto dell’ottocentesco palazzo Salvati, che utilizza in parte il muro castellano. Piu’ avanti e’il palazzo di Evangelista Zenoni, con cornicione dipinto a rondo’ in bianco e nero, nell’aspetto attuale  del sec. XVII e del XVIII ma di origine piu’ antica. Sul vicolo accanto si aprono due porte di carattere medioevale.In generale , prevale l’edilizia recente e comunque quella rimaneggiata in questo secolo ed anche negli ultimi anni. Al periodo in cui le case di Papigno erano grigie per i fumi dell’industria e’ succeduta, forse per il meccanismo di compenso, una fase multicolore.
Al n. 67, porta di carattere tardo-gotico, di seguito, la porta a tutto sesto del castello, costruita nel secolo XVI.
A lato della chiesa un ambiente ad arcate, con funzioni difensive, risale probabilmente alla prima epoca del castello. Porte e finestre databili verso il sec. XIV e il XV sono ancora conservate anche in via Pisacane (n. 16, 26, 34, 42). Presso un sottopasso medioevale, una casa purtroppo intonacata di recente a cemento, conserva un portale e una finestra rinascimentale. Davanti e’ una casa con due graziose finestre cinquecentesche.
Come in molto altri insediamenti della Valnerina, il Cinquecento e’ stao anche a Papigno un secolo di rinnovo edilizio, come dimostrano le numerose porte e finestre databili in quel secolo (ad esempio, una porta con l’iscrizione Zuccai P 1581) che sostituirono le piu’ anguste aperture medioevali.

CHIESA DELL’ANNUNZIATA
L’ubicazione nel punto piu’ alto del colle e soprattutto alcuni resti precedenti alla costruzione attuale consentono di attribuire all’edificio un’origine tardomedievale, ipotesi avvalorata dalla base del campanile, visibile nel vano sagrestia, con apparecchio murario a blocchi squadrati di pietra locale.
Rasa al suolo da un terremoto. Probabilmente quello del 1785, fu riaperta al culto nel 1795 sotto il pontificato di Pio VI che ne aveva promosso la ricostruzione come risulta da una lapide apposta nell’interno. Un’altra iscrizione ci informa che il 29 gennaio 1877 il vescovo di Terni, Antonio Belli, riconsacro’ la chiesa che era stata abbellita da nuovi ornamenti.

L’ingresso, sul lato sinistro, e’ stato realizzato nell’Ottocento. L’interno, a navata unica coperta a botte, con due cappelle per ogni lato, appartiene alla ricostruzione del tardo sec. XVIII, orientata verso il gusto neocalsssico. Alla fase ottocentesca appartengono i finti lacunari e le finte nicchie con Santi dipinti a tempera.
L’interno e’ arricchiito da cinque altari ornati di tele dipinte a olio tre delle quali sicuramente precedenti alla ricostruzione settecentesca:La Madonna del Rosario, attribuita ad Ascensidonio Spacca; l’Adorazione dei Pastori;l’Annunciazione; la Strage degli Innocenti, attribuita a Calisto Calisti; la Circoncisione, parzialmente ridipinta, attribuita a Simone Cimurri. Il tabernacolo dell’altare maggiore ha una moderna porta in bronzo firmata Colasanti. Il fonte battesimale settecentesco e’ in marmo scolpito.

VALLE CASTELLI

E’ l’antico nome dell’ampio terrazzo fluviale che si apre sulla destra del fiume Nera di fronte a Papigno e che ricorda la nobile famiglia terzana dei Castelli, signori del luogo.
La loro residenza compare in una pianta dei pascoli del comune di Papigno del 1621 ed e’ poi citata nello stesso secolo in numerosi documenti come villa Graziani, al centro di un’isola verde fitta di piantagioni di agrumi, olivi e peschi, al riparo delle inondazioni del Nera. Queste coltivazioni, promosse dai conti Graziani, dettero un’importanza del tutot particolare al paesaggio agrario della zona.
Il giardino della villa, il cui viale d’accesso era ornato di duplice fila di aranci, costituiva fino a tutto il secolo scorso motivo di ammirazione per gli illustri visitatori della Cascata, ospiti dei Graziani. Fra gli altri, Carlotta di Brunswick, moglie di Giorgio IV d’Inghilterra, Camille Corot, Lord Byron, la principessa imperiale di Russia, il re di Baviera, Ferdinando II di Borbone.
La grande villa, che compare ancora perfettamente conservata in fotografie dei primi del secolo, e’ stata distrutta intorno agli anni Trenta per far posto ai magazzini dell’ex stabilimento elettrochimico di Papigno.

Villa Graziani, poi Pressio-Colonnese. Si raggiunge con una breve rampa sulla sinistra della Statale 209, all’altezza del bivio per Papigno. L’edificio ha subito pesanti trasformazioni nel secolo scorso, tanto da rendere difficile la lettura dell’impianto originario riferibile ai secoli XVI e XVII. E’ stata ampiamente rimaneggiata la facciata, ornata di un bel portale di disegno ottocentesco che riutilizza parti preesistenti e successivamente, rialzate le altane e il corpo centrale, alternandone le proporzioni. Durante l’ultima guerra una bomba ha distrutto l’altana destra. Il cattivo stato di conservazione dell’edificio di cui e’ ormai abitato solo l’ultimo piano, e’ denunciato dai vistosi tiranti metallici che lo cingono e dalle massicce murature di rinforzo che ispessiscono le pareti interne.

Poco lontano. Scavata nella viva roccia, e’ la cappella di famiglia, una semplice facciata a capanna in laterizio, di epoca settecentesca. L’interno, a due campate coperte a botte ribassata con sottarchi e paraste, si restringe nell’arco trionfale a tutto sesto che introduce l’abside rettangolare, anch’essa coperta a botte. Sulla seconda campata, a sinistra, si apre la porta della sagrestia, ornata da cornici e rosette angolari in stucco. La chiesa e’ stata utilizzata come cabina elettrica.

Villa Fabrizi. Attualmente di proprieta’ dell’ENEL, che l’ha destinata a sede degli uffici della stazione elettrica di Villavalle. L’impianto originario risale probabilmente al sec. XVIII, epoca alla quale sono databili le tre crociere, con muratura in pietra sponga alternata a due file di laterizio, conservato nella parte inferiore. La facciata e’ stata rifatta tra la fine del sec. XIX e gli inizi di questo secolo, e recentemente, per adattarlo alla attuale destinazione d’uso,l’intero edificio e’ stato ampliato e completamente ristrutturato all’interno.



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